Tom à la ferme (CANADA-FRANCIA 2013) di Xavier Dolan
Un giovane pubblicitario arriva in piena campagna per un funerale e scopre che laggiù nessuno conosce il suo nome né la natura della sua relazione con il defunto. Quando il fratello maggiore di quest’ultimo impone un macabro gioco di ruolo per proteggere la madre e l’onore della famiglia, si instaura tra di loro una relazione perversa che potrà risolversi solo con l’affiorare della verità, qualunque sia il prezzo da pagare. Ha un bel mentire chi viene da lontano…
In cinque capitoli si dipana l’adattamento di Xavier Dolan dell’omonima pièce di Michel Marc Bouchard, primo script non originale per il giovanissimo cineasta (ventiquattro anni) al suo quarto titolo (i primi tre, diversissimi uno dall’altro, non hanno mai trovato distribuzione in Italia), prova decisiva che, proprio attraverso l’approccio all’adattamento, rende chiara, nelle sue linee guida, l’idea di cinema del regista, individuandone con nettezza le coordinate stilistiche, il metodo, l’approccio […] Come in tanto cinema odierno, si mette in scena (letteralmente e non) una famiglia che non esiste, un nucleo deviato che di quella mantiene la parvenza: ce la si prende allora con una compagna che non è andata al funerale (e che non c’è mai stata, salvo inventarsela – cosa che accadrà -) e si finge la descrizione indiretta della storia etero di quel figlio nascostamente gay, racconto che, dalla finzione, sconfina in un’intimità che è palesemente vera, inequivocabilmente “diversa”, ma che non scombussola una madre abbarbicata alle sue fittizie certezze, quelle alle quali non sa rinunciare neanche quando le parole di Tom raccontano spudoratamente altro, sotto mendaci spoglie. Di segno simile il rapporto tra Tom e Francis, conflitto in cui l’omofobia classicamente, risaputamente, banalmente (e non lo si legga in chiave negativa) è quella del cripto-gay e che sancisce la storia del film quale apologo sulla psicosi di due esseri che affrontano assieme un percorso di evoluzione (l’uno di scoperta di sé e delle proprie pulsioni sessuali e sentimentali – con disperata ammissione finale -, l’altro della tormentata elaborazione di una colpa non meglio definita). Nel parallelo percorso dei due si vedano allora le ragioni per le quali Tom si lascia risucchiare dalla ferme: ne diventa parte e meccanismo, si sottomette alla legge e al sadismo fraterno, si scopre complice dell’aguzzino, lo segue nelle sue scorribande alcoliche e allucinogene, lo difende persino, accetta di diventare il sostituto del compagno morto, di piegarsi a un ripristino artificiale dell’ordine sovvertito. Il protagonista non avverte il peso della violenza esercitata su di lui perché tutto il dolore che gli viene inferto in quella casa fa parte del suo processo di espiazione: è dovuto, accettato, cercato. Un dolore cui si sottrarrà quando, scoperto il vero volto del suo amante morto, smetterà di espiare; quando, ascoltando le parole del barista del paese, il sanguinoso racconto della violenza di Francis, tornerà a vedere il giovane con lo sguardo della lucidità.
Dolan costruisce la tensione attraverso espliciti rimandi a Hitchcock, facendo largo uso di notabili musiche hermanniane e, diversamente da un Ozon, non sublima o volatilizza i riferimenti, ma con la voracità tipica del giovane che è, li mastica velocemente e li risputa quasi intatti sullo schermo. È forse questo che mi entusiasma maggiormente del lavoro del canadese: poter vedere all’opera un cineasta che gira con l’ingenuità, l’entusiasmo, la mancanza di rigore, la ruspanteria tipica della sua età. Non ho dubbi che col tempo Dolan troverà una misura, riuscirà a dosare magistralmente gli elementi, a girare un’opera equilibrata e perfetta, ma adesso e solo adesso il suo cinema si mostra sinceramente tellurico e irruente, naif come quello di nessun altro. Solo adesso sfodera il furore autentico di chi non si preoccupa delle sfumature e del calcolo delle atmosfere, solo ora riluce di tutto bianco e si ottenebra di tutto nero. Esagerato, sfrontato, spericolato, sempre sull’orlo del kitsch, Tom à la ferme è davvero la cartina di tornasole del cinema di Dolan: vincolato nella sostanza, ma pazzamente libero nell’esibizione di uno stile proprio di chi non si pone il problema di eccedere, di essere anche grossolano (e allora lo schermo si restringe in scope per soffocare nell’immagine i personaggi), che non calcola ogni effetto: Dolan schiettamente si butta e fa quello che sente. E quando alla fine – Tom sta tornando alle luci e ai rumori della città – piazza sui titoli un veramente ovvio, telefonatissimo Rufus Wainwright, quello di Going to a Town – che più didascalico non si può (I’m going to a town that has already been burnt down/ I’m going to a place that has already been disgraced /I’m gonna see some folks who have already been let down/ I’m so tired of America) – mi verrebbe voglia di battergli il cinque.
Luca Pacilio – spietati.it d